11 am - Capitolo III

Mi piaceva volare. 

Mi piaceva viaggiare in aereo, voglio dire. 

Se non altro si beveva ancora a scrocco. Bevvi vino e birra e whisky durante il volo Roma-New York, quando atterrammo passai il controllo passaporti senza rendermene conto, mi persi nei meandri del JFK Airport, con un bel po' di culo ritrovai l'uscita giusta, salii su un altro aeroplano e ripresi a sbronzarmi da New York a Houston, dove atterrammo per uno scalo di quindici minuti. Infine trascorsi la mezz'ora del volo Houston-Austin sorseggiando prudentemente un paio di birre e sognando una sigaretta. 

Una volta a terra, qualcuno mi prese sottobraccio e mi pilotò giù dall'aereo e fuori del tunnel d'uscita. 

Era estate anche in Texas, ma non all'interno dell'aeroporto Robert Mueller di Austin, dove faceva un freddo cane. Mi ripromisi di chiedere informazioni a proposito di questo Mueller: era l'inventore del frigorifero? Una guida alpina? Un pinguino? 

Avevo le orecchie rosse e avanzavo barcollando, ma riuscii ugualmente a rendermi conto che tutto ciò che si racconta a proposito dell'uso selvaggio che gli americani fanno dell'aria condizionata non è una stronzata. È tutto gelidamente vero. 

Il mio bagaglio consisteva in uno zaino militare di tela grigia. Lo aprii e pescai il mio giubbotto in finta pelle nera. Indossai il giubbotto prima di ricoprirmi di brina e guardai lo zainetto afflosciarsi vuoto sul linoleum del pavimento. Lo raccolsi, lo aprii e ci diedi un'occhiata. Cosa cazzo avevo portato? Risposta: niente. O quasi: sul fondo buio di quello zaino galleggiavano tre boxer e quattro paia di calze spaiate, stop, nient'altro. Dov'era lo spazzolino da denti? Dov'erano finiti i jeans di ricambio? Che ne era stato dei fratelli Karamazov? Non c'era niente. Richiusi lo zaino, me lo ficcai in tasca, mi guardai attorno. 

Lei, lei era li. 

A soli dieci metri da me, appoggiata alla parete verde del corridoio, che ridacchiava: mi aveva osservato per tutto quel tempo, e si era divertita. Ancora non sapeva che stava per dire addio al suo spazzolino da denti.  

Rimasi dov'ero, fermo come un uccello impagliato. Non potevo crederci, ero di nuovo a meno di un oceano di distanza da lei. Anche lei rimase ferma. Forse anche lei non poteva crederci, chissà. Aveva indosso la stessa giacca di pelle nera di sempre, gli stessi jeans neri di sempre, gli stessi capelli lucidi di sempre, gli stessi oochi brillanti di sempre, la stessa aria quieta di sempre. 

"Chanda," mormorai. 

"Uhm," annuì, dondolando la testa e sorridendo. 

Provai a muovermi. Ci riuscivo, non ero rimasto assiderato. Feci un salto e mi ritrovai abbracciato a quella ragazza bionda vestita di nero che illuminava con il suo sorriso un intero corridoio dell'aeroporto della capitale del Texas. 

Non ci vedevamo da tre mesi, ma ci ricordavamo benissimo l'uno dell'altra. Le diedi un bacio, poi un altro e un altro ancora, mi staccai per guardarla, la baciai ancora e mi staccai per studiare quelle labbra ben disegnate, piene e luccicanti, gli occhi azzurri e trasparenti incastonati sopra gli zigomi alti, i capelli biondi, dritti, divisi nel mezzo, il sorriso raggiante. Me la guardai e riguardai, eppure stentavo a crederci: era la ragazza piiù bella che avessi mai visto, ed era tra le mie braccia. Mi convinsi che, senza saperlo, nella mia infanzia o nella mia adolescenza avevo compiuto qualcosa di meraviglioso per meritarmela. Lei era tutti i regali di Natale e di compleanno che non avevo mai avuto, tutte le uova di Pasqua che non avevo mai mangiato, tutti i trofei sportivi che non avevo mai vinto. 

"È tre mesi che ti aspetto," disse.
"Qui dentro?" 
Innestò a sua risata fresca e frizzante come un 'acqua minerale e disse: 
"Attacchi subito con le stronzate? 
"Ci provo." 
Aprì la bocca per replicare qualcosa, ma le venne fuori solo uno dei suoi uhm-uhm, sormontato da un altro di quei sorrisi lampeggianti.

La strinsi forte a me, cacciai il naso tra i suoi capelli profumati, ma non riuscii a trattenermi dal lanciare un'occhiata curiosa oltre le sue spalle. In fondo lei la conoscevo già, l'America ancora no. Vidi un bar in fondo al corridoio, a meno di cinquanta metri. Mi attardai con qualche altro bacio, poi la presi per mano e la condussi in quella direzione. 

Entrammo nel bar e ci arrampicammo su due altissimi sgabelli davanti al banco. Cercai con gli occhi il barista, Chanda cercò me con le mani e mi trovò, nello stesso istante io trovai il barista, suggerii a Chanda di mollare la presa - non era il momento - e ordinai due Jim Beam. 

I Jim Beam arrivarono e scomparvero d'un fiato. 
II barista mi interrogò con lo sguardo. 
Annuii con un cenno. 
Altri due Jim Beam planarono sul banco. 
Chanda prese il suo e lo buttò giù. lo, più, modestamente, feci solo un piccolo sorso e dissi: “Allora, quando partiamo?" 
Non ero andato in Texas per fare il turista, e nemmeno per trasformarmi in un alcolizzato. 

Chanda era tornata in America tre mesi prima per sostenere gli ultimi due esami che le mancavano per conseguire una laurea in sociologia. Prima di partire, mi aveva chiesto di prometterle che sarei andato li a riprenderla. Vivevamo in Irlanda e mi era venuto facile giurarle che, come no, sarei andato a recuperarla. Poi ero tornato in Italia per un po’, avevo tentato di risolvere dei casini, mio padre si era ammalato e aveva abbandonato questa valle di lacrime lasciandomi con un vuoto 

 

ma un vuoto

 

 

e insomma durante i tre mesi che avevo trascorso lontano da lei, non avevo mai pensato, nemmeno per un attimo, di andare in America a riprendermela. 

Poi ero entrato in un'agenzia di viaggi e avevo comprato il biglietto. 

Ora mi premeva solo caricarla su un aeroplano e riportarla a Cork, dove c'erano una casa colorata e una lucrosa attività - si dice imprenditoriale? - che mi aspettavano. Lei aveva finito I'università, poteva dedicarsi a me. O no? 

Aspettavo ancora una risposta. 
Chanda si strinse nelle spalle, scostò il bicchiere e trasse un sospiro. 
"C'è un problema," disse poggiando le mani sulle mie ginocchia. 
C’è un problema, pensai, e il pensiero mi rotolò nel cranio con un rumore di ferraglia. 
"Uno grosso," precisò. 
Ci siamo, pensai.
C'è un altro. 
O magari una malattia incurabile. 
O forse i suoi genitori odiano gli italiani, specie se terroni. 
"Mi hanno derubata dei miei risparmi," disse. 
Buttai fuori un gran sospiro. "Tutto qui?" domandai sollevato. 
"Tutto qui? Erano tutti i miei risparmi. 
“Di che somma si tratta?" chiesi. 
"Diecimila." 
"Diecimila cosa?" domandai come un idiota. In Italia si usavano le lire. Con diecimila lire si compravano due canne. Da Paolo il Pesce o da Lilino Muss di Zucchero o da Pierino U' Pazz. 
"Dollari.”
Con diecimila dollari Pierino U' Pazz dava via la famiglia.
"Non li avevi in banca?" 
Scrollò la testa e mi sfiorò una mano, poi spostò lo sguardo sul barista e chiese un terzo Jim Beam. Non c'era nessun altro avventore nel bar, e ancora una volta il barista fu lestissimo ad accontentarci. Chanda afferrò il bicchiere con entrambe le mani e ci guardò dentro. 
"Forse so chi è stato," disse abbassando la voce. 
"Un ladro?" azzardai. 
"Una ladra," 
Perbacco, non ci azzeccavo proprio mai. 
"Chi?”
"Marie Colombe," rispose, e si zitti. 
Aspettai che continuasse, ma non lo fece. Aveva affondato lo sguardo nel bicchiere rincorrendo chissà quali pensieri. Pareva diventata improvvisamente muta. Non che sia mai stata una chiacchierona, comunque. 

Chi diavolo era Marie Colombe? Perché non mi raccontava tutto dall'inizio alla fine? Perché procedeva a spizzichi e bocconi, eh?
A proposito, che cazzo di modo di dire, è, “a spizzichi e bocconi”? 

"Andiamo," mormorò, "ti spiego tutto a casa." 

Trangugiai il bourbon e mi sollevai ondeggiando. Chanda lasciò un biglietto da dieci dollari sul banco e mi trascinò fuori, fuori dal bar e fuori dall'aeroporto. 

Quando le porte del terminal si chiusero sibilando alle nostre spalle, un'inaudita vampata umida di calore subtropicale mi investì.

"A kitemmù," sibilai.. 
"Bello, vero?" chiese Chanda. 
"Già," risposi senza pensarci. Cos'era bello, il clima? O piuttosto il paesaggio? 
Davanti al mio sguardo perplesso si stendeva un enorme parcheggio illuminato da centinaia di luci rosse al neon, e basta. 
Ci incamminammo verso la macchina. 
La raggiungemmo. 
Delusione. 
Era una Fiat Regata. 
Grigia. Metalizzata. 
Che ci faceva una Fiat Regata grigia metalizzata nel parcheggio del R. Mueller Municipal Airport di Austin, Texas, e perché dovevo salirci proprio io? 

"Odio le auto americane," mi spiegò Chanda aprendo lo sportello. 
"Anch'io," affermai. 
In realtà io odiavo TUTTE le cazzo di macchine - delle bare semoventi, ecco cosa sono - ma soprattutto le Fiat, e soprattutto le bruttissime Regata. D'altra parte poteva anche andarmi peggio: poteva essere una Fiat Duna. Comunque ero negli USA, mi sarei aspettato di ritrovarmi su una Ford, una Chevrolet, una Chrysler, di quelle lunghe dal colore improbabile e le finiture cromate che da piccolo vedevo saltare sui dossi di San Francisco, e invece mi ritrovavo su una Fiat Regata. 

Chanda mise in moto e ingranò la marcia e accelerò e condusse il trabiccolo oltre i cancelli. C'era qualcosa che non andava. Guardai in basso: pedale del freno, pedale dell'acceleratore, nient'altro. Mi strofinai gli occhi. Guardai di nuovo. Era vero: freno, acceleratore, stop. Non c'era la frizione. 
Una Fiat Regata col cambio automatico. Roba da far gridare e piangere qualsiasi automobilista italiano. Beh, io non ero un automobilista. 

Sfociammo in Airport Boulevard e ci dirigemmo verso sud. 

"Ti faccio fare un breve giro turistico," disse Chanda toccandomi una coscia. Annuii con un gesto vago della mano. Non potevo risponderle, avevo cacciato la testa fuori del finestrino e avevo preso a studiare a pupille dilatate il paesaggio notturno che scorreva ai bordi della strada. Era la mia prima volta in America, capite, e ciò che vedevo era esattamente ciò che mi sarei aspettato di vedere: la materializzazione in 3D dell'idea di un'America a pixel sgranati che vent'anni di televisione avevano instillato nella mia mente. La luce rosa-blu dei neon - la luce definitiva delle notti americane - dominava le vetrine dei ristoranti e dei bar e si rifletteva sulle carrozzerie delle auto grosse come vagoni ferroviari che ci sorpassavano con una lentezza esasperante. La strada, larga quanto una qualsiasi autostrada europea, si snodava liscia e scorrevole tra le colline su cui Austin è distesa, costeggiando mastodontici centri commerciali e quartieri residenziali di belle ville bianche immerse nel verde. 

Ero in un telefilm delle 18.30 e facevo la comparsa. Eppure c'era qualcosa che non riuscivo ad afferrare. Era tutto sovradimensionato, e lontano. Nel senso che ogni costruzione, ma anche gli alberi, le auto e i pochissimi esseri umani che giravano a piedi, apparivano stranamente slegati tra loro, come figurine piatte disposte a profondità differenti. Chanda, che pure è nata e cresciuta a Portland, Oregon, quindi molto più a ovest di Austin, mi spiegò che lo spazio, nel West ma soprattutto in Texas, "è l'elemento che più caratterizza le cose, le persone e i rapporti tra le cose e le persone, perché le ridimensiona e al contempo le rende più nitide e comprensibili". 

Chanda leggeva un sacco di libri, e ricordava  a memoria delle intere frasi. 

Svoltiamo in Martin Luther King Boulevard e procediamo verso ovest. Ci immettiamo nel traffico silenzioso della interregionale 35, la lasciamo all'uscita 234 e sbuchiamo sull'Undicesima, nel cuore di Downtown, sotto la cupola di granito rosa del Campidoglio. Il Campidoglio del Texas è addirittura più alto di quello di Washington, ma a me fregava poco. Piuttosto, rimasi a bocca aperta davanti allo skyline di quel pugno di grattacieli illuminati che si stagliavano rigidi e maestosi sullo sfondo di un cielo meravigliosamente stellato, presi un tiro dalla sigaretta che Chanda mi aveva passato, e sospirai. 

Forse avevo bevuto troppo. 

Chanda allungò un braccio verso di me. Temetti che volesse prendermi a schiaffi, invece sfiorò la mia guancia con una carezza. La sua mano era calda, morbida, era la mano che per tutta la vita avevo desiderato sentire sul volto, e magari non solo li, e ora ce l'avevo: l'avrei stretta tra le dita per l'eternità (attimo più, attimo meno) e non I'avrei mai, mai lasciata, per nessuna ragione al mondo. 

Un improvviso divieto d'accesso ci sbarrò la strada a tradimento, mollai la mano, Chanda sterzò seccamente e svoltò a destra, sfiorando un distributore di giornali e una pompa d'acqua. La macchina sbandò e fece un mezzo giro su se stessa, poi si bloccò. Ci ritrovammo ingolfati in un ingorgo. Ce ne sono anche in America, persino in Texas. 

"Questa è la Sesta Strada," annunciò Chanda. 

Guardai a destra, guardai a sinistra, e non ci capii nulla. Sembrava la festa del santo patrono. Fiumi di persone di ogni età, sesso e razza passeggiavano rilassate e indolenti sui marciapiedi e sulla carreggiata, intralciando il traffico; su entrambi i lati della strada c'erano dozzine di locali che davano musica dal vivo - accordi blues, rock, reggae, indie, jazz rotolavano fuori dalle porte, rimbalzavano sul cemento dei marciapiedi e schizzavano alte nel cielo come tante mongolfiere - e c'erano altrettanti fast food, pizzerie, chioschi di gelati e hot dog, laboratori di tatuaggi, bancarelle di bigiotteria e souvenir, striscioni e festoni che penzolavano da un edificio all'altro sventolando sopra le teste di sbirri in mountain bike e sbirri a cavallo e sbirri a piedi, neri ubriachi seduti a terra, fricchettoni ubriachi fradici stesi ai margini della carreggiata, giapponesi sobri con gli occhi sgranati. 

"Ehi, cos'è 'sta roba?" gridai eccitato. 
“Te l'ho detto, la Sesta" 
"Ma c'è una sagra, una fiera, un festival, qualcosa così?" 
"No, non mi pare." 

Aggrottai la fronte e strinsi la labbra. Beh, quella era la Sesta Strada ad Austin, Texas, un martedì sera d'estate di inizio anni '90. Niente di più, niente di meno. In realtå, da molto prima che arrivassi io, Austin si era autoproclamata Capitale della Musica dal Vivo del Mondo, e la Sesta era la sua piccola Broadway del rock. Piccola per modo di dire, è lunga chilometri. 

Poi vidi un negozio di liquori. Lo vide anche Chanda. Alzai piano gli occhi su di lei, ma lei stava già accostando. Scesi dalla Regata e mi precipitai dentro. Un commesso messicano era incastrato tra il registratore di cassa e un monumentale scaffale a muro fitto fitto di bottiglie di tutti i tipi, colori e dimensioni, e leggeva un giornale. Sgranai gli occhi e li puntai su una bottiglia verde di tequila Montezuma. Li riabbassai sul messicano e dissi: "Buenas Tardes," 

Lui sollevò lo sguardo, mi studiò brevemente lisciandosi i baffetti neri, si appoggiò coi gomiti al banco e riprese a leggere. 

Mi tracciai una smorfia offesa sulla faccia e lo pregai di darmi una bottiglia di Montezuma e una confezione da sei di Heineken in bottiglia. Il messicano raddrizzò la schiena, prese ciò che avevo chiesto e lo buttò in un sacchetto di carta marrone che mi passò senza guardarmi. Pagai, uscii, tornai in auto e sprofondai nel sedile. In quel momento decisi che non sarei mai andato in Messico. 

La Regata si staccò dal marciapiede, proseguì sulla Sesta in direzione ovest, girò a destra, sfociò in Lamar Boulevard e puntò a nord. Le vie cittadine erano tutte perfettamente perpendicolari tra loro, gli incroci tutti ad angolo retto. Mi sentii come un cosetto buffo in una scatoletta che andava su e giù una tela di Mondrian. 

Chanda abitava un po' fuori, dalle parti di un torrentello secco chiamato Shoal Creek, in Steck Avenue. Era un bel quartierino spazioso, una colonna di carrarmati ci sarebbe passata senza intralciare il traffico - e conteneva tutto, ma proprio tutto quel che ci si può aspettare da una fetta esemplare di America fatta come si deve: due shopping malls con relativi parcheggi vasti come campi da calcio, due parchi, tre chiese battista, cinque drive-through (cioè fast food in cui si accede solo in auto) e, naturalmente, schiere e schiere di villette unifamiliari. 

La casa di Chanda era una di queste villette di legno costruite secondo la tradizionale struttura a pallone inventata da un falegname di nome Augustine Taylor nella prima metà dell’Ottocento, a Chicago: lastre sottili che attraversano la costruzione da cima a fondo e sono tenute insieme soltanto da chiodi. Il nomignolo, però, si riferisce alla leggerezza, non alla forma, che è rigorosamente squadrata.

Il West, quello Selvaggio, è stato conquistato da questa trovata: nel 1832 Chicago si chiamava Fort Deanborn, e contava meno di cento abitanti. Sessanta anni più tardi ne contava un milione, moltissimi dei quali rigorosamente incorniciati in questa struttura a pallone che, va detto, è impossibile da migliorare. Nell’800 qualsiasi famiglia di pionieri poteva fermarsi in mezzo alla prateria o in cima a una qualsiasi collina e costruirsi con le proprie mani un affare del genere. Poi, se si stufava del paesaggio, smontava la baracca, ne numerava i pezzi, la impacchettava, la caricava sul carro e la rimontava mille o duemila miglia più a Ovest. Se non veniva fatta fuori dalla fame, prima, o dalla sete, o da qualche malattia, o da qualche altra causa tra le tante a disposizione. Il percorso dall’Est verso l’Oregon e la California, ad esempio, il famoso “Pioneer Trails”, è per gli americani "il cimitero più lungo della nazione" per via di un tasso di mortalità del 10%: tra il 1841 e il 1869 ci hanno lasciato le penne 30000 emigranti su 350000. Le principali cause di morte lungo questo gioioso sentiero furono: malattia (colera, dissenteria, eccetera); ferite da arma da fuoco (sparatorie accidentali, armi difettose, incidenti di caccia); incidenti (soprattutto cadute dai carri); attraversamenti di fiumi e annegamento; eventi atmosferici estremi (temporali, grandine, fulmini, tornado e vento forte).

E gli indiani? Gli indiano incazzati che attaccavano le carovane a sorpresa, ammazzavano tutti e gli facevano pure lo scalpo? Non esistevano. Gli indiani d'America erano di solito il problema minore degli emigranti. Per lo più pacifici, i nativi tendevano piuttosto ad aiutare gli emigranti e a commerciare con loro. Offrivano cibi freschi e mocassini per diversificarne la dieta e sostituire i loro stivalacci frusti. Prima che i bianchi costruissero i ponti, gli indiani organizzavano dei traghetti con le loro canoe per trasportare carri e persone. 

Insomma i racconti di incontri ostili erano per lo più inventati di sana pianta, anche perché parecchi emigranti avevano il grilletto molto facile e sparavano agli indiani semplicemente per esercitarsi al tiro, o per paura infondata, creando in questo modo la necessità di giustificare i numerosi omicidi. 

Ma torniamo alle case a pallone. Ovviamente quella di Chanda, come tutte le altre cinquecento della stessa strada, era una versione piů evoluta del modello originale e, come le altre cinquecento, aveva un piccolo prato frontale attraversato da un vialetto ricoperto di ghiaia, e un giardino sul retro. 

Parcheggiammo I'auto, anzi la Regata, nel vialetto, smontammo ed entrammo. Mi ritrovai in un ampio soggiorno moquettato di blu, con un vecchio impianto stereo buttato in un angolo e alcuni cuscini poggiati a ridosso delle pareti. Da qualche parte c'erano anche una cucina, un paio di camere da letto, un bagno e uno sgabuzzino, ma io rimandai la visita completa a dopo, e mi accartocciai sulla moquette. Ero comprensibilmente stanco. 

Chanda sorrise e mi diede un leggero bacio sulla fronte, poi andò in cucina, mise le birre in frigo e tornò con un piattino su cui aveva depositato alcune fettine di limone e un po' di sale. Mi si sedette accanto, apri la bottiglia di tequila, si passò il sale sulle labbra e prese un sorso. Un sorso enorme. Poi mordicchiò una di quelle fette di limone. 

Ne ero sicuro, non l’avrei mai lasciata. 

Allungai le mani su tutta l'attrezzatura ed effettuai la stessa operazione. 

Chanda si decise a tornare sul problema dei soldi scomparsi. 

"Ho lasciato il lavoro solo pochi giorni fa, mi restano meno di duecento dollari e devo ancora pagare l'ultima settimana d'affitto." 

"Com'è andata?" chiesi. 

"Avevo questo denaro in contanti che tenevo da parte per tornare in Europa. Non l'avevo depositato in banca perché qui funziona tutto con le carte di credito. Se lo avessi depositato lo avrei speso senza accorgermene. Era nascosto in camera mia, tra il materasso e la rete. leri sono andata a controllare, e non c'era più." 

"E questa Marie? Chi è?" 

"Marie è la ragazza che ha diviso questa casa con me per tre mesi. E andata via solo pochi giorni fa, per andare a vivere col ragazzo." 
"Ma guarda. Pensi sia stata lei?" 
"Beh, la porta non è stata forzata, e le finestre nemmeno. Diciamo che Marie è I'unica possibile indiziata. Però non so, siamo amiche. Comunque è andata via senza consegnarmi le chiavi di casa e senza nemmeno salutarmi, si è limitata a lasciarmi un bigliettino." 
"Un bigliettino?" 
"Già un foglietto di carta con un breve messaggio." 
"Posso vederlo?" 
"L'ho buttato, C'era scritto semplicemente qualcosa tipo Grazie di tutto e arrivederci.
“Non hai provato a chiamarla?” 
"Mi ha chiamato lei, ieri." 
"Cosa ti ha detto?”
“Non mi ha trovata. Ha lasciato un messaggio in segreteria, dice che richiamerà." 

Bene bene, non si trattava che aspettare, allora, ma non riuscii a trattenermi dal chiedere: "Come potremmo rintracciarla?” Anche se in realtà non avevo alcuna intenzione di mettermi sulle tracce di questa Marie. Per me, se era stata lei, era già in vacanza in Messico. 

“Non ne ho idea, non so dove si sia trasferita,e ad ogni modo non so molto di lei, tranne che è arivata un anno fa da Les Cayes." 

"Andiamo a Les Cayes," sparai. 

Chanda sorrise stiracchiando un solo angolo della bocca 
"Les Cayes è ad Haiti," disse. 
"Lasciamo stare?” 
"Lasciamo stare" 
Sospirai sollevato. Avevo rischiato grosso. Mi ripromisi di stare piů accorto a quel che dicevo. La tirai piano a me e le carezzai i capelli. Si accoccolò sulle mie gambe e chiuse gli occhi. "Voglio andare via da qui," disse con un filo di voce, "voglio tornare in Europa. Non ne posso piů di questa città di plastica e compensato, della puzza onnipresente di cheeseburger, della violenza che è nell'aria." 

Mi venne da starnutire, e starnutii. 
Le sue erano ottime ragioni, io ci avrei aggiunto anche I'aria condizionata.
"Insomma ti sei cacata il cazzo." 
"Già" sospirò.
"Vedrai che in una settimana ritroviamo i soldi, saliamo a bordo del primo aereo e ce ne torniamo a casa." dissi. 
Sfoderò uno sguardo blu pieno zeppo di gratitudine e di speranza: "Davvero?” 
"Certo. Sono venuto qui a riprenderti, no?” 

Rise. 

Chanda rise, dolce, tra le labbra e gli occhi, come una bimba stanca ma contenta, abbassando la voce e scuotendo lentamente quei bei capelli biondi. "Uhm," fece rimettendosi su, abbracciandomi, stringendomi a sé, baciandomi i capelli, la fronte, le palpebre, le guance, il collo, la bocca, sciogliendomi come fossi neve in un bicchiere caldo, strizzandomi il cuore e stendendolo al sole, spingendomi piano verso il letto. Ci lasciammo cadere e ci stendemmo e prendemmo a svestirci e 

SBENG! 

Un rumore improvviso, forte e secco come una pistolettata, risuonò nel soggiorno. La porta d'ingresso era stata spalancata di botto. Chanda alzò La testa 

"Marie!" esclamò. 
C'era una tizia nera, magra, in piedi sulla soglia che mi guardava ad occhi spalancati. 
"Marie?” chiesi. 
"Sì," confermò. 
"I soldi," dissi 
Non rispose. Invece chiuse la porta e saltellò verso di noi. 

Dove sono i diecimila? Cosa vuoi a quest'ora? Non potevi restare ad Haiti? Non potevi bussare, almeno? Potresti farci rivestire, per favore? 

Avevo un po' di domande da farle, a questa. 

Si buttò a sedere a terra, agganciò la bottiglia di tequila, la portò alle labbra, ingollò un gran sorso e tornò a sorridere. Sorridendo, mi guardò. Poi stralunò gli occhi. 

"Ma siete nudi!" strillò. 

"Beh, non importa," aggiunse rapidamente, "ho visto di peggio." 

Ingollò un altro sorso di tequila liscia, si piazzò una sigaretta tra le labbra, l'accese, mi soffiò il fumo dritto in faccia e si rivolse a Chanda: 

"Mi spiace avervi disturbato.”

"Figurati," disse Chanda scuotendo la testa. 

lo mi ero già messo in piedi e infilato i jeans. Scippai la bottiglia dalle mani di Marie e buttai giủ, GLU GLU GLU. Gliela ripassai e la fissai. L'analizzai. La studiai. La misi a fuoco. Era una ragazza nera sui ventiquattro anni, sottile se non proprio secca ma con delle belle tette, in testa una gran massa di dreadlocks dagli strani riflessi rossicci, e due occhi dello stesso colore della pelle, nocciola scuro, e vivi, vivi, ma proprio vivi come quei diecimila dollari che mancavano all'appello.