11 am - Capitolo II
"Raccontami qualcosa."
"Cosa?"
"II tuo primo ricordo."
"Il mio primo ricordo?”
“Sì."
"Non vuoi sentire la favola di Cappuccetto Rosso?"
“No, grazie."
"Conosco una versione precedente sia a quella di Perrault che a quella dei Fratelli Grimm, completamente diversa.”
"La conosco anch'io: il lupo sbrana la nonna facendola a pezzi, cucina i resti, versa il sangue in una bottiglia, appende le viscere alla porta, aspetta Cappuccetto Rosso, le fa mangiare la carne della nonna a sua insaputa, poi la spoglia e la sbatte a letto. Infine la sbrana."
"Sai già tutto."
"Allora, il tuo primo ricordo?"
La mia camera - la numero 5 - ha le pareti dipinte di verde chiaro. C'è un gran letto addossato alla parete, un armadio di legno verniciato di giallo, un minuscolo lavabo d'acciaio incastrato in un angolo. Sopra il letto, un'ampia vetrata che dà su Lower Glanmire Road. Il pavimento è di assi di legno scricchiolanti, pitturato di viola.
La pioggia continua a ticchettare sui vetri. Le rare automobili passano sfrecciando nella notte, facendo tremolare la tendina di bambù.
"ll tuo primo ricordo."
Cosa mi viene in mente?
I ricordi da ragazzino.
Il sangue di Marianna sulla camicia immacolata di Sandokan, i Sandinisti che entrano a Managua, i tre gol di Paolo Rossi al Brasile, ma tutto questo è memoria televisiva, e forse non vale, però chi li dimentica, i Sandinisti che entrano a Managua, Somoza che fugge a bordo di un elicottero americano.
I Sandinisti, baby, quelle bandiere rosso-nere, la Rivoluzione dei Poeti, cerco di spiegarle, ma lei, americana, non capisce di cosa sto parlando.
"ll tuo primo ricordo?"
È domenica pomeriggio, stadio Zaccheria di Foggia. Il sole illumina l'enorme rettangolo verde steso davanti al mio sguardo perplesso. È Aprile ma c'è ancora un bel freddo secco a pungermi le guance e la punta del naso. Mio padre si soffia le mani e se le strofina. Zio Emilio compra una bottiglietta di Caffè Borghetti e se la scola d'un fiato.
Una voce gracchiante, sinistra, agitata, si diffonde nello stadio, ma è difficile capire che dice. Anzi, non si capisce niente.
Evacuare l'area?
Allarme nucleare?
La guerra è stata appena dichiarata?
Mio padre continua a fregarsi le mani e a guardare davanti a sé. Non ha capito. Diamine, rimarremo intrappolati qui, sepolti sotto migliaia di altri corpi carbonizzati. A meno che non arrivi Superman. Su Batman non faccio affidamento, quello fa il turno di notte.
Le bandiere rossonere sventolano sulle tribune e sulle curve.
"Quelle dei Sandinisti?" mi chiede Chanda.
"No, quelle del Foggia."
Dalla curva arrivano cori, suoni tribali ed esplosioni di petardi. Papà guarda in quella direzione ed applaude. Applaudo anch'io, non si sa mai. Zio Emilio s'è beccato una coltellata da un teppista capellone, tempo fa.
Lo guardo. Non ci sono tracce di sangue su di lui. Studio le facce intorno: niente capelloni. Si parla sempre di questi capelloni, mai dei barbieri. lo i barbieri li odio. Non mi piace farmi tagliare i capelli, non mi piace per niente. L'ultima volta ho lottato strenuamente, ma papà e l'amico di papà e il barbiere e l'assistente del barbiere erano troppi per me solo. Mi sono lasciato incastrare e fregare come Sansone, ma la prossima volta non mi avranno. I miei capelli ricresceranno lunghi, li voglio almeno come quelli del Comandante Mark. Mi piacerebbe avere anche la sua faccia, ma non il suo cavallo. Preferirei una motocicletta. Se fossi il Comandante Mark me ne andrei in giro in sella a una Honda rossa, nuova fiammante, e comprerei la benzina con l'oro sottratto alle giubbe rosse inglesi.
Le squadre scendono in campo. La voce gracchiante torna a calare minacciosa sugli spalti. Cosa starà dicendo. Boh. I nostri hanno le maglie a righe rossonere.
"I Diavoletti del Tavoliere," mi informa zio Emilio. Gli avversari hanno una croce enorme, nera, stampata sulle maglie bianche.
"Papà, sono cristiani?"
"Sì."
"E noi che siamo?
"Cattolici."
"Ma i diavoli non sono cattolici."
"Quali diavoli?"
"Quelli del Tavoliere. Saranno gli stessi di quelli che Dio ha scaraventato giù dall'ultimo piano, no?"
Mio padre abbassa lo sguardo su di me, inarca un sopracciglio e stringe le labbra.
"Beh, quelli sono protestanti."
"Perché protestano?”
"Perché cadendo si sono fatti male."
"Molto male?”
"No, non troppo. Dio è buono, qundo vuole. Li voleva solo punire un pò perché avevano fatto i cattivi."
"Come me quando non volevo farmi tagliare i capelli?"
"Loro hanno fatto meno chiasso."
"Ma tu non mi hai buttato giù dall'ultimo piano."
“Noi abitiamo al primo."
"Ah."
Mio padre butta la cicca a terra, la schiaccia sotto un tacco. Estrae un'altra sigaretta dalla tasca della giacca, l'accende. Mio padre fuma Diana Blu. La partita si preannuncia difficile. Cristiani contro Diavoli. I primi non hanno mai perso, e pare che non perderanno mai.
L'ho letto su La Più Grande Storia, la Bibbia Illustrata delle Edizioni Paoline. Era nella seconda parte, quella pallosa del Nuovo Testamento.
La prima parte, il Popolo d’Israele che ci mette 40 anni per fare 90 km nel deserto, trova il mare spalancato, poi arriva, vince tutte le guerre con due dozzine di nazioni incattivite, brucia le città, tradisce Dio, si fa perdonare, viene deportato a Babilonia, ritorna, sconfigge i Filistei, attacca ad adorare altri dei, fa ancora la guerra, si affida ai profeti ai giudici ai saggi, finalmente un ragazzino uccide un gigante con una botta di culo e viene incoronato Re ma attacca a fare figli a go-go e da ogni figlio spunta una tribù nuova che va a conquistare un pezzo di deserto per le sue capre, e inventa storie sulla costruzione di templi e palazzi e cose che non sono mai esistite.
Insomma il Vecchio Testamento era Ken Follett sotto anfetamine, altro che, il popolo di Israele una massa agitata di pastori e guerrieri ninja che non riuscivano a starsene tranquilli manco a legarli.
L'arbitro fischia. I giocatori attaccano a correre sotto il sole, sopra l'erba verde e scintillante. Bresciani, il numero 9 rossonero, riceve la palla a centrocampo, la passa al numero 5, Pirazzini, e scatta in avanti. La palla gli ritorna proprio davanti ai piedi, l'aggancia col destro, fa una finta di corpo, il suo marcatore si sbilancia e scivola a terra. Bresciani schizza via, supera la linea bianca che delimita l'area di rigore. II portiere saltella fuori dalla porta, Bresciani s'aggiusta la palla sul sinistro, il portiere gli piomba addosso come se volesse pugnalarlo, ma lui lo scansa, abile, prende la mira e tira. Forte. Preciso. Dritto in porta.
Goal!
Lo stadio trema, sobbalza, si sposta, esplode di urla e risate. Zio Emilio sghignazza e alza le braccia al cielo. Butta giù un altro Caffè Borghetti. Bresciani corre verso la curva. I tifosi si lanciano verso di lui, saltano sulle reti di protezione come scimpanzé strafatti d'anfetamina. Tutti i diavoletti in pantaloncini e maglie a righe gli sono addosso. Lo stringono, baciano, abbracciano, gli carezzano i capelli.
Perbacco, solo adesso ci faccio caso: Bresciani ha i capelli lunghi, lunghissimi, come quelli di Sandokan. Mio padre ne grida il nome, ride felice, applaude. Però a me i capelli li ha fatti tagliare.
“Non riesco proprio ad immaginarti coi capelli lunghi," mi consola lei.
Vorrei avere i capelli lunghi per essere come Vincenzo. Vincenzo è un mio compagno di classe. Dicono sia uno zingaro, ma io non so bene cosa significhi, questa parola, anche se la gente la pronuncia come fosse una parolaccia. So solo che Vincenzo è molto più grande di noialtri. È stato bocciato un paio di volte perché non impara né a leggere né a scrivere. Non che sia idiota, semplicemente non gli va. Suona la fisarmonica, lui, cosi un giorno il maestro gli ha chiesto di portarla in classe, e il mattino successivo lui I'ha portata. II maestro gli ha chiesto di suonarla, e lui l'ha suonata. Ha eseguito un paio di pezzi che il maestro ha accompagnato cantando. Ad un tratto m'è sembrato che fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Il maestro, non Vincenzo. Vincenzo non piange mai.
Il maestro s’è schiarito la voce, ha posato le mani sul tavolo chiudendole a pugno e ci ha spiegato che quelle che aveva appena cantato erano canzoni della Resistenza, cioè di quando gli Italiani Coraggiosi avevano scacciato i Tedeschi Cattivi. Non ho capito bene: li hanno scacciati cantando? Ai tedeschi non piace la musica? Ma non volevo fare la figura del fesso, e non ho chiesto spiegazioni. Poi Vincenzo ha suonato ancora, cantando lui stesso, ma in una lingua diversa dalla nostra.
Suona la fisarmonica, parla le lingue straniere e non piange mai. Come hanno potuto bocciarlo?
Ad ogni modo il nostro maestro non lo boccerà mai, ne sono convinto. Il nostro maestro è un tipo in gamba. Fuma un mucchio di sigarette, diverse da quelle di mio padre. Forse sono le sigarette degli Italiani Coraggiosi, non so, comunque mio padre non è certo un Tedesco Cattivo, conosce tantissime persone e sono in tanti a volergli bene. Alfredo il Tedesco, quello che siede al primo banco, lui è nato in Germania, ma neanche lui è un nazista. Noi abbiamo un po' sospettato di lui, ma il maestro, accendendosi una sigaretta e sfoderando un sorriso gigantesco, ci ha raccontato che i genitori di Alfredo sono italiani, ma prima che lui nascesse sono stati costretti ad andare via e a stabilirsi in una città chiamata Stoccarda.
"A lavorare, se no qua morivano di fame," ha aggiunto Vincenzo.
Sa tutto. Forse per questo non gli piace la scuola: non gli serve a niente.
A questo punto lei mi chiede che fine ha fatto Vincenzo, se ancora lo vedo, qualche volta, se siamo rimasti amici.
Si infila i miei jeans. Sono gli unici che ho. Cosa dovrei fare, calarmi nella sua gonna a fiori?
"Quand'ero bambina, a Portland, andavo sempre a fare dei giri sul sellino posteriore di un chopper," dice.
"Che chopper?"
"Quello di Zed"
"Chi è Zed?"
"Zed è morto, baby, Zed è morto," risponde scoppiando a ridere.
Beh, anche Vincenzo, se è per questo. Affogato in una pozzanghera di sangue, parecchi anni prima. Una rapina andata male.
Bresciani, Bresciani, Pavone. Una doppietta di Carletto Bresciani, un gol al 46’ di Pavone. L’allenatore Cesare Maldini cammina leggero verso gli spogliatoi. Forse si va in A.
“Quest'anno si va in Paradiso," dice convinto zio Emilio mentre si esce felici dallo stadio. A suon di goal e Caffè Borghetti, altro che buone azioni.
"Di che colore sono i tuoi ricordi?" mi chiede a bruciapelo prima di accendersi un'altra sigaretta, servendosi di nuovo della fiamma della candela.
"Di che colori sono i tuoi?" replico per prendere tempo.
"La vita è a colori, ma la realtà è in bianco e nero," risponde lei, storpiando le fonti.
"E i ricordi non sono né vita né tanto meno realtà," aggiunge un poco pedante.
I ricordi sono una trappola, il nostro specchio infernale. Sono trasparenti e appiccicosi come ali di mosca, e la memoria è una ragnatela tessuta nell'angolo più alto delle nostre esistenze.
Siamo in classe. Lo schermo sgranato di un piccolo televisore in bianco e nero è aperto su Via Fani. Aldo Moro è sparito in una tempesta di spari, urla, freni che stridono, sangue che zampilla e gente che muore. La sua assenza è registrata da un'infinita sequenza di flash, da una sfilata di carabinieri dai volti corrucciati e dalla voce luttuosa di Paolo Frajese che indugia sugli sportelli sforacchiati dell'Alfetta bianca.
"Chi sono le Brigate Rosse?"
"Assassini" sentenzia il maestro, "Assassini con le palle," aggiunge subito dopo, a bassa voce.
Immagini dalla Camera. Tutti quei deputati che si agitano, alzano in piedi, prendono la parola, si interrompono a vicenda, passeggiano irequieti tra gli scranni, sfogliano misteriosi fogli di carta.
"Ah se li facessero fuori tutti," sibila.
lo e Vincenzo guardiamo la sigaretta dimenticata accesa nel posacenere, il verbo ammazzare è come quel filo sottile di fumo azzurro che si alza dritto per una ventina di centimetri, per poi appiattirsi sotto il palmo di una mano invisibile e infine deformarsi, arricciarsi e disperdersi in aria.