11 am - Capitolo I

Era fatta: stavo per riavere il mio passaporto. Anzi, stavo per ottenerne uno nuovo. Il primo era scaduto cinque anni prima, e per un motivo o per l'altro non ero mai riuscito a rinnovarlo. Un motivo si chiamava servizio militare, l'altro boh.

Raggiunsi la Questura in una traversa del Viale della Stazione, entrai negli Uffici Amministrativi, mi presentai e spiegai succintamente il motivo della mia visita. Stavo fremendo, non vedevo l'ora di mettere le mani su questo passaporto, ma il funzionario barricato dietro la scrivania, un tipo sui cinquanta, secco e baffuto e dalla faccia gialla come un topastro, mi intimò di aspettare. 

- "Aspettare cosa?"
- "Aspettare," rispose brusco con una vocetta stridula da zitella. Punto. 

Presi ad aspettare. 

ll tizio magro e giallo se ne stava in piedi e scartabellava una valanga di carte, nuotava tra pile di pratiche, scalava montagne di scartoffie. Le estraeva dai cassetti di due schedari metallici verniciati di grigio, le sollevava a fatica e con poca grazia le sbatteva sulla scrivania, dove atterravano con un tonfo sordo, PLOM, in una nuvola bianca di polvere. 

Stava cercando il mio passaporto? Forse, ma non mi era dato sapere: il signor Funzionario procedeva lento, meticoloso e proprio assorto nel suo scartabellare, senza spiccicare una parola e senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. 

Presi a studiarne le posizioni sorprese e le espressioni strambe che assumeva ogni volta che da ciascuna pila estraeva una carta più gialla e più logora delle altre: stirava le labbra, torceva le spalle, sollevava in aria il pezzo di carta tenendolo con entrambe le mani e distanziandolo di almeno mezzo metro dagli occhi, e leggeva sotto voce quello che c'era scritto. 

Fossi stato più attento, forse sarei riuscito a leggere i movimenti delle sue labbra. Invece non ero per niente attento. Ero distratto da pensieri di morte, della SUA morte. Era in pericolo, ma non lo sapeva. Nemmeno lo sospettava. Continuava a spulciare tra le sue carte gialle e ammuffite. Ormai ne aveva accumulate a quintali, su quella scrivania. 


All'improvviso si immobilizzò, bloccandosi come una volpe abbagliata dai fari di un'auto in corsa su una strada di campagna. Fece schioccare la lingua e si lasciò cadere sulla poltrona. Aveva trovato ciò che stava cercando, e non era certo il mio passaporto.

Era una carta rossa.
Come, una carta rossa?

Una carta di colore rosso, giuro, delle dimensioni di una pagina di quaderno.
- "Aah", sospirò rigirandosela tra le mani.
- "Aah", feci anch'io, che ancora aspettavo, in piedi sulla soglia della porta, le mani intrecciate dietro la schiena.
“Scusi?" disse lui, rialzando di scatto gli occhi dalla sua cartaccia rossa.
“Cosa?" balbettai.
“Che vuole?" strillò.
“ll mio passaporto," mormorai intimidito, "sono qui da quindici minuti."
“Quale passaporto?"
“ll mio," bisbigliai.
“Lo cerca qui?"
Indietreggiai di un passo, uscendo dall'ufficio. Sulla parete esterna, a fianco della porta, c’era una targhetta color amaranto: AMMINISTRATIVA, diceva un'iscrizione a caratteri dorati, e subito sotto, su un foglietto di carta aggrappato a un pezzo di nastro adesivo, era scritto: “Passaporti”. Lessi e riassunsi il tutto a voce alta, scandendo bene:
"A-M-M-I-N-I-S-T-R-A-T-I-V-A, P-a-s-s-a-p-o-r-t-i."

“Non faccia lo spiritoso!“ sbraitò il Funzionario, e le punte dei suoi baffetti da dittatore sudamericano s'impennarono verso il soffitto, mentre le sue mani presero a tremare, e con loro anche il misterioso foglio di carta rossa.
"Lei si chiama..." farfugliò con voce incrinata, anzi, spaccata dall'indignazione. L'indignazione di Stato, e che stato.

Scandii il mio nome e cognome, mi zittii, considerai mentalmente l'opportunità di confessare anche il mio codice fiscale, ma mi accorsi che il maledetto al di là della scrivania mi aveva già dimenticato, e aveva ripreso a fissare, o leggere, il foglio rosso.
Leggeva.
Continuava a leggere.

Sospirai, PFUUU, abbastanza forte da fuor muovere I'aria intorno.

Il Funzionario puntò un occhio, uno solo, su di me. Poi lo riabbassò.
"Lei si chiama..." ripeté senza guardarmi, parlando come in un sogno.
"Esattamente come mi chiamavo prima," mi lasciai sfuggire.

Alzò lo sguardo dal foglietto rosso, sbatté le palpebre e si rizzò in piedi di scatto, come se un'ape gli avesse punto una chiappa.
"Insomma, che cosa vuole?" ululò.
Lo guardai a bocca aperta, sbalordito e incredulo, come si può guardare il Mostro di Loch Ness, I’uomo delle Nevi, il Cinghiale Bianco, oppure Naomi Campbell dal vivo, nuda. Era il 1991.

Porco Dio, pensai, mi rivolgo ad Amnesty International?
Ma volevo uscire da quel posto fetente senza complicazioni, magari col passaporto in tasca, perciò mi concentrai e sfoderai quel poco che restava della mia buona educazione.

"Guardi," iniziai, "tempo fa - tre lunghissimi mesi fa - ho riempito qualche dozzina di moduli, vi ho sommersi di fototessere con la mia stupida faccia, ho fatto incetta di bolli, mi sono procurato tutti i certificati che ci si può procurare in questo Paese (non ne dico il numero ché mi farebbe girare la testa), ve li ho consegnati tutti, infine mi sono alleggerito di una discreta sommetta. Tutto per un passaporto. Sono passato l'altro giorno e qualcuno, un suo collega, uno con barba e occhiali e giacca a quadretti, mi ha assicurato che oggi, proprio OGGI, avrei potuto ritirare questo benedetto coso."

Il tipo giallo mise via la sua carta rossa, nascondendola in un cassetto grigio.
"Un passaporto," disse tra sé e sé.
“Un cazzo di passaporto," ringhiai tra me e me.
"Il suo nome?" ri-chiese.
Glielo ri-dissi.
"Aaah," sospirò.
AAAHHH, pensai, ma mi costrinsi a tenere la bocca chiusa: non volevo ricominciare tutto daccapo.
"Aaah," ripeté, e buttò una ferocissima occhiata sul piano della scrivania: c'erano montagne di carta giallo-giallastra come quella faccia appiccicata a quei baffetti neri, un'Olivetti Lettera 46, una copia sbrindellata della Gazzetta del Mezzogiorno, un portapenne di plastica trasparente e pure un cucchiaio, infilato nel portapenne, insieme a qualche penna. Nient'altro, ma nemmeno un centimetro di spazio vacante. Solo carte, carte, carte.

Il Funzionario Giallo si grattò il mento per un secondo, poi, di botto, afferrò una di quelle pile, la sollevò in aria e la scaraventò a terra. Lo fece davvero: BOM! a terra. Un milione di scartoffie esplosero nel centro dell'ufficio, deflagrarono sul pavimento piastrellato di marmo grigio scuro, svolazzarono nell'aria grigia e si sparpagliarono tutt’intorno.

In bilico sul bordo della scrivania apparve una busta color senape. La prese. C'erano un paio di righe scarabocchiate sul dorso. Le lesse con solenne attenzione, impiegandoci due minuti abbondanti. Poi sollevò gli occhi su di me, piano, come se gli costasse fatica, e alla fine il suo sguardo mi centrò e, come si dice, mi traflsse.

Subito dopo mi squadrò da capo a piedi, strabuzzando gli occhi, quasi avesse di fronte Elvis Presley o il Fantasma Formaggino o Palmiro Togliatti, insomma qualcuno che in quel posto non ci faceva un cazzo. In effetti io non vedevo l'ora di andarmene, non ero nemmeno più cosi sicuro di volere quel passaporto.
"ll suo passaporto," annunciò.
Vacillai.
Il mio cosa?
Non ebbi molto tempo per pensarci: quello mi lanciò il passaporto addosso, PAK. Mi colpì al petto e rotolò a terra.
"È cosi che tratta un passaporto della Repubblica Italiana?" fece." Lo prenda e si tolga dai piedi."
- "Non c'è bisogno di dirlo, kitemmùrt!" pensai. Mi chinai, raccolsi il mio passaporto e mi tolsi dai piedi.

Uscii in strada ed inspirai.
Il sole era alto nel cielo blu, espirai.

La gente passava trascinandosi fiacca e sudata lungo i marciapiedi del Viale della Stazione, alias Viale Matteotti, scansando le cacche di cane sparse a terra come tante mine antiuomo e le macchine parcheggiate sugli stessi marciapiedi, mentre le auto in strada si rincorrevano strombazzando selvaggiamente, come se invece di funzionare a benzina funzionassero a rumore.

Era un afoso mezzogiorno d'estate nella gloriosa San Severo, gli allarmi antifurto suonavano in almeno tre punti diversi del viale, i cassonetti erano seppelliti sotto montagne d'immondizia che spargevano intorno un allegro tanfo di pesce marcio e mutande bagnate, ma io avevo il mio passaporto, proprio come un qualunque libero cittadino di una qualsiasi nazione decente.

Lo tirai fuori, lo aprii. Guardai la foto. Su quella testa vecchia già di tre mesi c'erano più capelli del solito, e sulla faccia era ritagliato un sorriso imbarazzato.

Controllai la scadenza: cinque anni di validità. Bene. Volai col pensiero ai deserti che avrei attraversato sul dorso di un cammello, agli amici che mi sarei fatto tra gli indios dell'Amazzonia (se avessi fatto in tempo a trovarne di ancora vivi), ai sigari da fumare con Fidel Castro (quello sì che l'avrei trovato ancora vivo), agli orsi polari da fotografare, alle bandiere da piantare sulle vette del'Himalaya, poi feci mente locale, cambiai rotta e tornai indietro.


Per il momento dovevo concentrarmi sulla mia missione: andare in Texas a recuperare mia moglie.